domenica 29 gennaio 2012

Recensione di Grazia Calanna - Il cinema brucia e illumina di Andrea Zanzotto (Marsilio)

“«ciack!» - Federico -, è il tuo circo che erutta e deflagra con gusto, vi piroetta e saetta la festa che maschere appioppa o strappa: possa ognuno della folla che alla tua giacca s’aggrappa conoscere almeno se ha la parte del Bianco o dell’Augusto!”. Versi di Andrea Zanzotto onorano l’amico  Fellini, bulbilli di una riverberante raccolta, “Il cinema che brucia e illumina”, edizioni Marsilio, che compendia articoli, lettere, liriche e pagine inedite dell’imperituro umanista veneto intitolati al diletto cosmo cinematografico. “Non poteva restare insensibile al fenomeno linguistico e sociale che il cinema così pervasivo nella vita del Novecento, su cui ha depositato tracce profonde, proprio un poeta che quel secolo ha attraversato e per il quale l’atto di vedere è all’origine di molti suoi versi”, sottolinea Luciano De Giusti, curatore della selezione. Suggestive memorie quelle dell’autore che, in “Ipotesi intorno a «La città delle donne»”, secondo una linea di continuità felliniana, “il cinema in quanto seduzione irresistibile è qualche cosa di femminile, nella sua essenza”, chiarisce che “parlare del cinema è parlare della donna. La donna-cinema seduce perché rivela, come in un angosciante e dolcissimo titillamento, quella parte di irrealtà che è in ognuno, e che è tale solo per poter aprire il nulla di ciascuno ad una cosmica comunità”. Altrettanto, seducenti, lo sono quelle legate al lungometraggio «E la nave va», “sospeso tra angoscia e disincanto, tragicità e grottesco, ricco di riferimenti al moto reale della storia europea di questo secolo ed insieme sotteso da una complessa trama di valori simbolici”. Sostanziose le considerazioni attorno alla pellicola “Teorema”, datata 1968, consacrata all’infuocato tema dei rapporti interfamiliari, da considerare, rimarca Zanzotto, “come la sintesi rappresentativa della presenza di Pasolini, specie nella direzione di una poesia totale, capace di inglobare tutto in sé”. E, ancora Pasolini, presente in maggior misura con la propria “assenza che porta molti a chiedersi cosa farebbe o direbbe di fronte all’incalzare di fenomeni degenerativi della società ben al di là delle sue pur tragiche previsioni”. Non ultima, risalta, in “Motivi di un candore”, la figura di Nino Rota, il compositore “sembra volerci aiutare a ritrovare, come un folletto, quell’intramontabile deus gentile che è insito nella musica stessa”. Riflessioni invitanti, taglienti, sulla “derealizzazione” prodotta, sin dalle origini, dal cinema; sull’imminente genesi di muti “paradisi visuali”; sul  nostro vivere un tempo “damnatio memoriae”, fatuo, svuotabile, volto alla rimozione di memorie riservate ai posteri.
GRAZIA CALANNA


GRAZIA CALANNA. L’AZZURRO DEL BENE

GRAZIA CALANNA. L’AZZURRO DEL BENE
(note critiche di Mario Grasso al libro Cono Silente di Grazia Calanna)
Per ogni nuovo poeta che scopriamo si accende una luce che prima non c’era.
Diciamo una luce per dire che qualcosa di magico si aggiunge alla capacità di capire probabili frammenti della vita e del suo mistero. Perché mistero è la vita e non solo per la imprevedibilità che in essa si annida, quanto per gli stimoli che ogni presenza di vita provoca intorno a sé, stimoli per reazioni che si manifestano per innestarne altre, e all’infinito. Grazia Calanna ha esordito da poeta dando alla silloge un titolo allusivo verso due miti della vita umana, il tempo e il silenzio .
(Crono silente – pagg. 80 - € 10,00 – Prova d’autore). È importante leggere quanto ha scritto nella sua impetuosa prefazione Savina Dolores Massa, una rapida sintesi che tanto contiene e più dimostra. Onestà di lettore vuole che si riconosca nella centrata definitorietà dell’intervento della prefatrice il grumo centrale di quanto Grazia Calanna ha distillato, con disinibita franchezza, quasi a proporre un canto ossimoro rispetto alla promessa (pur pienamente onorata) del titolo. Il fatto è – potrebbe essere avanzato – che il silenzio caratterizza chi ha riserve di cose da dire sulla umana condizione, e per dirle non ricorre al filtro dell’ambiguità ma al machete-maglio della propria verità, quasi a farne omaggio a quella inconfutabile regola che identifica la letteratura nella vita e non certo per la contingenza di ripararsi sotto un libro-manifesto del secondo decennio del secolo scorso: “Letteratura come vita” di Carlo Bo (1929). E dire che, quella volta, si era già appena alla soglia della stagione ermetica. Una stagione che fu amata dalla poesia e che resiste nella sua formula di calcolate reticenze, forse in omaggio a una delle pretese della lirica che privilegia i luoghi dell’inespresso, che rifugge i momenti del didascalico e del parenetico, per esorcizzare il pericolo del moralismo. Eppure proprio questa ultima considerazione potrebbe celare un limite assurdo al momento di poter essere adattata alla poesia. Perché la poesia è anzitutto la ricerca e l’affermazione del vero. Forse perché il vero è la parte nobile e destinata a sopravvivere, forse perché la verità è amata e cercata da tutti (come la poesia, appunto) anche se, ironia della sua sorte, la verità offende. Proprio così. Ma Grazia Calanna non propone offesa alcuna quando ci ricorda con i versi iniziali di “Briciole”, che “C’è chi concede briciole / avaro / C’è chi si sbriciola / altruista / C’è chi finirà in briciole / avido / C’è chi di briciole risorgerà /azzurro”. Il colore azzurro è qui significativo e può invitare a curiosare nella tavolozza dei colori che si succedono in “Crono silente” spesso accompagnati da riferimenti termici che complementano di allusività palesi le proposte della poetessa. Infatti i colori in Crono silente sono tanti, e il loro non è un ricorrere né un ricorrersi, se ne coglierà pieno il significato valutandone il pendant con le temperature, che tendono ai valori alti. Lasciamo ai lettori il piacere di scoprire la scala delle temperature, in Crono silente e segnaliamo quella dei colori. Ed ecco come, tra grigi pag.19 e 42; pece, pag. 20 e nera pag.45, si giunge al plumbeo (pagg. 38 e 49) e dall’ebano i pag. 27 al cinerino della successiva al bianco della 29. In controtendenza con il vermiglio di pag. 18 che si coniuga al porpora (pag.37) e ancora allo scarlatto (pag. 56), isolando il rubino di pag. 40. L’azzurro e il celeste (pag. 44 e pag.56) negano il bianco e relegano il “buio” nel suo ricorrere tra le pagg. 22, 34, 37…. Lasciamo fuori, anche stavolta al piacere dei lettori, le centrate figuralità simboliche ma solo altro tra i segni rivelatori, che confermano la lealtà della scrittura creativa di Grazia Calanna, forte di tensione interiore autentica quanto “silente”, proprio in arrendevole intelligenza con le esigenze inesorabili del Tempo-Crono. Non resterebbe che il tentativo di entrare nel merito della forma. Banco di collaudo per la letteratura in genere, per la poesia in particolare. Ed è su questo fronte che si è chiamati alla responsabilità di definire quanto possa essere destinato a separare i momenti della cronaca da quelli della letteratura come vita. Un momento che si affida all’evidenza proprio nel caso di questo esordio di Grazia Calanna, che ha scelto di raccontare i momenti dell’inesprimibile subliminale ricorrendo alla formula di un diario in pubblico, tra le cui pagine non si svolge il canto di quanto raccolto o ripudiato, visto o ascoltato, ma il fedele diagramma di un’anima che reagisce, il tracciato di un percorso di sensibilità offesa, che ha disegnato i confini oltre i quali c’è l’azzurro del bene, più come ipotesi e speranza che come tesi ed esperienza. Un mondo nel quale non c’è molto da scegliere oltre “Conforme conformante conformismo / Catene impermeabili / schivano il temporale perenne di un tempo / asservito all’antropica silente stoltezza”. Ecco l’imporsi della propria verità a dar nome e immagine all’inesprimibile, che tale finirebbe di essere se tautologicamente si ponesse fine, per sempre, all’ipocrisia e al pecorume del “come l’una fa le altre fanno”. Infinite sono le vie per dire il vero, Grazia Calanna ha scelto quella più semplice, quella di un tipo di spontaneità che fu tanto cara a Umberto Saba, il poeta che ci ha lasciato per insegnamento che “La notte vede più del giorno”, una lezione che Calanna porta in sé con fiera consapevolezza e umile approccio, anche per non urtare più di quel tanto il “conforme conformante conformismo”, nel quale chi più chi meno, tutti continuiamo a vivere immersi, anche nei momenti in cui ci ergiamo a giudici degli altri, trascurando di giudicare, anzitutto noi stessi.
(Mario Grasso)



mercoledì 25 gennaio 2012

Penne EstroVerse Itinerante …

Successo per la presentazione del libro Porco hermes
di Dario Matteo Gargano


L’associazione culturale Estrolab editrice del periodico culturale l’EstroVerso (www.lestroverso.it) con il patrocinio della Provincia Regionale di Catania per il ciclo Penne EstroVerse itinerante  ha presentato con successo il libro intitolato “Porco hermes. L'artista esegeta in groppa alla przevjalski dell'esistenzialità linguistica” di Dario Matteo Gargano, edizioni Prova d’Autore. “Un saggio – ha detto la giornalista Grazia Calanna, Direttore Responsabile del periodico culturale l’EstroVerso, moderatrice dell’incontro”, intitolato alla funzione linguistica della poesia arricchito, nella seconda parte, da diciassette  liriche scritte in parodistico stile aulico. L’autore, caustico, risonante, argomenta a ritmo serrato, osservando come,  al giorno d’oggi, il fine di esibire al pubblico rappresenta, nitidamente, l’errore che si cela dietro le logiche economico-consumistiche della cultura.  Inoltre, Gargano, all’interno del proprio lavoro, invitandoci alla riflessione, evidenzia l’imperante “borghesizzazione del gusto” e con essa la diffusa credenza che  l’arte è arte - solo - se viene venduta. Viviamo, dunque, in un epoca di “Gogne culturali” estirpabili soltanto mettendo in atto il non asservimento della poesia”.  Dario Matteo Gargano – ha detto il relatore,  prof. Mario Grasso, Direttore Letterario Prova d’Autore -, ha blindato l’accesso alla sua silloge d’esordio ma non ha buttato le chiavi. Anzi le ha scrupolosamente consegnate ai lettori con un personalissimo exursus introduttivo (L'artista esegeta in groppa alla przewalski dell'esistenzialità linguistica"), che fa pensare all’uso del bario, il metallo liquido che agevola la leggibilità del recondito nei momenti delle radiografie intestinali. Potrebbe essere in questa apparente casualità dell’arte (non più povera ma letteraria) un meno apparente castigo, destinato ai domenicali in autoterapia letteraria. Ai parrocchiani gravidi di poesia, a quanti ciociano all’ombra dei mecenati politici elargitori di pubblico denaro. Ai reggitori di grondaie (e botole di chiaviche) civiche per i serbatoi estivi, per l’innaffiata agli allori paesani. Fatevoi, ci direbbe Dario Gargano, intanto vado per satira; per cosa penso e come. Del resto – si potrebbe obiettare, affiancandoci spontaneamente al poeta, che una operazione come la sua entusiasma chi, guardando verso l’alto mare e scorgendo la persistente bonaccia che fa restare in porto le vele in attesa del vento, intravede nella ricerca di Dario Matteo Gargano un segno di libeccio generazionale (proprio, appunto, della generazione dei più giovani di oggi) rigenerante, che sembra scaturire da quella fondamentale lezione di Giorgio Manganelli di cui citiamo la parte centrale (“e centrifuga”, potrebbe insinuare beffardamente Gargano). Scriveva mezzo secolo fa Manganelli a proposito del poeta: “Non può tener discorsi, non può commentare, non ha pareri, non consente né dissente; ma gli si concede, anzi si vuole che egli straparli, scioccheggi, strologhi, berlinghi, fabulu e affabuli, concioni agli inesistenti, spieghi carabattole, ed a se stesso dia torto e ragione, si insulti ed approvi, si accetti e ripudi. In quel che dice molte materie e qualità si invischiano: ma non mai la verità, e non mai il suo contrario(…)”. Giorgio Manganelli adesso non è più con noi perché se ci fosse stato ancora avremmo chiesto proprio a lui di scrivere la prefazione a questo Porco Hermes d’esordio di Dario Matteo Gargano. E ne sarebbe stato entusiasta”.  Ha concluso lo scrittore Vladimir Di Prima congratulandosi con Gargano per la divertente genialità che caratterizza il pregevole testo. 


venerdì 20 gennaio 2012

Fervet opus di Grazia Calanna (www.lestroverso.it)

Fervet opus  di  Grazia Calanna


 Certo che “è più facile chiedere ai poveri che ai ricchi” ma, davvero, Čechov converrà, questa non è soluzione della quale abusare ignorando, ostinatamente, come accade, che imboccando miseria agli indigenti la percentuale di povertà (a scapito del pane) arde (lievita) a dismisura con la logica (sicura) conseguenza di ritrovarci tutti, nessuno escluso, dentro al forno (peggio che in grembo al Toro di Falaride). E, frattanto, tra plurimi sos lanciati al Presidente, rammarica (anche) quello per scongiurare la sospensione, o peggio, la chiusura di una cifra crescente di testate. Giustappunto, eccovi la nuova versione del periodico che mi pregio di dirigere. Siate clementi, chi scrive non è un grafico, si è improvvisato tale. Puro spirito di sopravvivenza. Fortuna che (rifuggiamo falsa modestia) è un numero ricco di contenuti (unica cosa importante, giusto?) grazie alla generosità di coloro i quali (il piacere di “scoprire” i nomi alle vostre oculate letture) hanno “dato e fatto con grazia”, offrendo  idee, gemme di scritti (preziosi). Del resto, e vi lascio con  Albert Camus, la vera generosità verso il futuro non consiste nel  donare tutto al presente?

(l’EstroVerso - n.1 // 2012)


Recensione Rubrica Belli da Leggere a cura di Grazia Calanna su www.lestroverso.it

Da Moby Dick all’Orsa Bianca
di Anna Maria Ortese
Adelphi


Scritti suadenti, distinti da raffinatezza, levità, trasporto, dolcezza, umorismo, esplorazione, amore, come quello per la lettura, che si rivela “fra le passioni più belle della vita, spazio del diletto e del riposo dell’anima e insieme della costruzione del senso del suo essere nel mondo e del suo starvi da scrittrice”, abbracciano, dal 1939 al 1994, un lungo periodo di intensa attività giornalistica. Parliamo del libro,  curato Monica Farnetti, “Da Moby Dick all’Orsa Bianca” di Anna Maria Ortese, edito da Adelphi, che si schiude con una deliziosa narrazione inerente il “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”, il giovane favoloso, colui che “ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con esso, lo sgomento della nostra piccolezza, l’affannato interrogare, il ripiegarsi muto”. Straordinari i capitoli intitolati: a Cechov, leggere una sua pagina, riflette l’autrice romana, “è come mettere l’occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita”; alla ragazzina di Amsterdam, Anna Frank, all’innata “esigenza di verità”, alla capacità di “resistenza al male” - dovunque esso sia - e al suo “diario esemplare”, custode di “un mondo che dura due anni, ma è eterno, perché è di tutti i tempi e di tutti i luoghi”; a Eduardo De Filippo, “inimitabile, incantevole evocatore di tutto un mondo e un costume in apparenza piacevole, in realtà cupo e disperato, un mondo e un costume che si dibattono ai margini della vita moderna, della ragione umana, costruttiva, senza comprenderla né esserne compresi”; a Dino Buzzati, a “quella sua facoltà più che umana, misteriosa e tranquilla, di avvertire, nella solitudine, la solitudine degli altri; di carpire, solo in apparenza immobile, la paura e il dolore del mondo”. Ancora, singolari gli spunti offerti dalle letture del “Ritrattino del Dandy” nel quale si ricorda Baudelaire, colui che “ha lasciato una immagine del dandy superiore a quella suggerita da qualsiasi altro scrittore”, e di “Cristo e il tempo” dove è rammentato che “siamo appena l’altra parte dell’Universo, dov’è posto il sigillo, siamo il primo Enigma, che aspetta in eterno - senza porre vere domande - una risposta già venuta da duemila anni, e che il silenzio, e l’atrocità del silenzio, vanno ora mutando in giudizio”. Nel contempo esilarante, caustico e meditativo “Il piacere di scrivere” che, schiettamente, premessa l’italianissima (pretesa) vocazione, bacchetta “ogni abitante-scrittore” che se ne sta sul proprio “manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’altro: e se quello è più colmo, sono occhiate, lacrime…”. Un modo per dire che dovremmo cessare di stendere soliloqui per piacere a noi stessi o, peggio, agli altri. Un’esortazione a rispolverare il valore autentico della letteratura, “un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze”.
Grazia Calanna

Recensione Poesia a cura di Grazia Calanna su www.lestroverso.it

“Fragmenta”
di Giorgia Zuccaro
Giuseppe Maimone Editore


“Fragmenta” di Giorgia Zuccaro, è una silloge (Giuseppe Maimone Editore) che raccoglie, in linea cronologica, versi fioriti dagli anni della pre-adolescenza ai nostri giorni. È la storia, meglio, “il romanzo di formazione di una vita che ricerca il senso prima dentro alle parole dei cari maestri e poi dentro il Sé”. “La genesi spontanea di queste poesie -  afferma il prefatore, prof.   Paolo Bellia - costituisce una cattura di contenuti elevati trasposti verso il basso e l’ermeneutica corretta dovrebbe tendere alla ricostruzione degli altri significati ispiratori in un moto di risalita piuttosto che seguire un percorso discendente verso i meandri dell’inconscio e del livello terreno-materialistico”. L’autrice che ha “bruciato incensi d’amore all’equa ragione e alla (propria) razionalità”, “rinasce da se stessa ogni giorno” porgendo un dettato lirico costantemente pulsante, diversificato da percettibili peculiarità. Scioltezza, “calava il giorno sulla nicchia di prato ove giacevo trasparente ai tuoi occhi”. Ermetismo, “il tutto non si scorge in quel limbo, nel tuo altare, tutto appare, tutto dispare e nulla che dia senso a questo faro intermittente”. Levità, “carpiva il suo silenzio celato in armonie dell’universo dormendo inginocchiata accanto a lui, cuore a cuore”. Osservazione, “nobili si stagliano i versi della tua quotidianità come agili levrieri in cerca di verità”. Spiritualità, “da un canto ti leggo e da un canto ti spero, assomigliarti agogno se non nella gloria perlomeno nell’anima”. Raccoglimento, “è forse più gratificante temere che godere la luce?”. Un inno colto e lucente all’indivisibilità dell’essere, all’infinitezza che “nasce con la fine e finisce con l’inizio”. Un invito, per dirlo pensando alla sapienza di Lucio Piccolo, vate celebrato dalla Zuccaro assieme a Montale (“ora tuo malgrado vivi, computo il balzo che una volta temevi, ma non hai lasciato il bandolo della sicurezza”), Ungaretti (“ora lo sai che è nel tappeto in cui i colori si fondono che la solitudine si stempera in una dolce armonia di suoni”), Saba (“rimpiangi di tornare su quel, ormai famoso, nuvolo dorato”),  Dante (“gli ignavi li sputa anche l’Inferno”) e Mario Luzi (“nulla di ciò che accade è senza volto e nulla di ciò che percepisci puro è inganno), a rifugiarci nell’oscurità di noi stessi per ritrovare quanto di prezioso abbiamo smarrito. E riflettere, pertanto,  sull’impellente necessità di prendere (“Avere”) coscienza del mondo. In che modo? Verosimilmente, ascoltando con “cuore sincero” - senza riserve - per diventare eterni “testimoni d’Amore” anche quando, sotto oniriche tolde,  “la notte disarma dolcemente la vita”.
Grazia Calanna

POESIA a cura di Luigi Carotenuto su l'EstroVerso (www.lestroverso.it)

I fiori del male
di Charles Baudelaire - (traduzione di Giorgio Caproni)

ll pregevolissimo volume Marsilio, curato egregiamente da Luca Pietromarchi (esaustivo, appassionato e acuto sguardo critico), è un'occasione per annusare tutti gli odori sparsi nell'aria da I fiori del male, floridissimi ancora oggi, in una introvabile traduzione del poeta Giorgio Caproni (di cui ricorre quest'anno il centenario dalla nascita), geniale e sensibile traduttore di Charles Baudelaire. Dalla copertina spiccano severi gli occhi del poeta francese, l'altrove pare abbia trovato domicilio nelle sue pupille insieme alle cateratte del vizio. Rovistando le tenebre egli ha tratto alla luce un'umanità rinnovata, salvata da mano di artista pietoso e universale. Baudelaire ha giocato fino in fondo e sul serio la partita di uomo e intellettuale, allargando visioni cognitive e profondendosi in immagini estremamente vivide, toccanti, incastrate in forme di sonetto o in rima alternata, slanciandosi dalla tradizione fino “Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau!”. Da visivo a visionario, la scrittura, eccelsa anche trasfusa sui poemi in prosa, gli aforismi o i commenti d'arte, mette a tu per tu il lettore, ipocrita o no che sia, così affondata com'è sulle bassezze umane, dunque attuale. Armandosi di sarcasmi e ironie per difendere il suo nudo cuore lacerato in una Parigi troppo indaffarata, indifferente al poeta albatros, manifesta aristocratico disprezzo dandy per la società borghese, e annota, profetico, nei Journaux intimes (trad. Marco Vignolo Gargini): “[…] periremo per ciò che noi abbiamo creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzato, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi tutta la parte spirituale, che nulla tra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe, o antinaturali degli utopisti potrà essere comparato ai suoi risultati”.
Luigi Carotenuto


POESIA a cura di Luigi Carotenuto su l'EstroVerso (www.lestroverso.it)

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L' Italia è morta io sono l'Italia
di Aurelio Picca (Bompiani)

“Io, io sono pronto a combattere contro tutti / come se la guerra potesse medicare le ferite, / cancellare i peccati, / come se potesse decidere una volta per tutte / il destino di un popolo servo, / di un mondo che presto morirà”. E davvero contro tutti, se stesso compreso, si scaglia il furore lirico e civile di Aurelio Picca, nel suo poema roventissimo “L'Italia è morta, io sono l'Italia”. La prima persona utilizzata in questo epicedio nazionale è la prima persona di ciascun lettore, una chiamata alle armi della sensibilità e dell'ascolto reale, un drammatico appello per ritrovare la mancata empatia, risorgere davanti allo scempio di una nazione che è nostra madre, il nostro sangue, infine noi. Nel suo furore Picca mostra un amore viscerale per un Paese girato da cima a fondo, perlustrato nei suoi recessi e monumenti ancora colmi di bellezza e idea di riscatto, sfregiati sì ma non annientati, come evidenzia Luca Doninelli nel commovente saggio a fine poemetto. Un foscoliano invito a ricordarci dei morti (“le nostre Ombre ci chiederanno il saldo”), e portare i bambini in visita al disarmante Sacrario di Redipuglia, custode dei tantissimi italiani periti nella Grande Guerra. Tra il “caos di queste ore / che si sfregano alla rinfusa” l'autore, attraverso il ricordo della luce, la stessa che avvolse San Francesco e Chiara beatamente, ritempra lo spirito affranto, specchiandosi nei cieli italici d'ogni regione. “Io indosso una camicia bianca / e ben stirata tutti i giorni / come se stessi seduto in un caffè a Catania / accanto al Verga che piega la mano / sulle labbra rosse della Sicilia. E ardo nelle fiamme di Agrigento / come se le colonne del tempio della Concordia / fossero le donne della mia vita”. Un'esortazione fiammeggiante, un grido commosso e disperato, un canto per resuscitare i vivi e risarcire i defunti.
Luigi Carotenuto  

l'EstroVerso n. 1 2012 è on line su www.lestroverso.it

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