martedì 21 giugno 2011

Cattafi, maestro e indimenticabile compagno

L’intervista di Luigi Carotenuto
Cattafi, maestro e indimenticabile compagno
L’intimo racconto della moglie Ada

Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto, 6 luglio 1922 – Milano, 13 Marzo 1979) è stato uno dei poeti più originali e appartati della seconda metà del novecento italiano, numerose le sue raccolte di liriche, quasi tutte per le edizioni Lo Specchio Mondadori tra cui ricordiamo: Nel centro della mano (1951), libro d’esordio, Le mosche del meriggio (1958), L’osso, l’anima (1964), La discesa al trono (1975), Marzo e le sue Idi (1977), L’allodola ottobrina (1979) e le postume Chiromanzia d’inverno (1983) e Segni (1986, edizioni Scheiwiller). Da segnalare inoltre, tra i vari interventi apparsi su riviste specialistiche e libri, il doppio n. 6/7 di Lunarionuovo, rassegna di letteratura diretta dal poeta Mario Grasso, interamente dedicato a Cattafi, con i contributi critici oltre che del letterato acese, di Sciascia, Spagnoletti, Giudici, Betocchi, Addamo, Sereni, Raboni, Bo, Cucchi e altri. Abbiamo avuto il piacere di intervistare la moglie, Ada De Alessandri Cattafi.
Il vostro incontro. L’innamoramento. Le va di raccontarci come vi siete conosciuti e alcune delle cose che avevate in comune?
“Incontrai Bartolo nel 1966 mentre lavoravo alla «Grandi Viaggi» di Milano. Veniva spesso in direzione a trovare i proprietari, Ermanno Amori e il figlio Silvio, suo caro amico e compagno di avventure. Nel dicembre dello stesso anno lo rividi a Londra, dove nel frattempo mi ero trasferita per motivi di lavoro. Bartolo mi chiese di fargli da guida e interprete per una giornata, alla fine della quale ci lasciammo, ripromettendoci di risentirci al mio rientro a Milano per le vacanze natalizie. Conservo ancora il suo telegramma: «Ti ricordo, ti penso, ti aspetto.» Il 26 giugno 1967 ci sposavamo in Scozia, ospiti del suo amico e traduttore George Kay. Bartolo era sulla quarantina. Aveva da poco consolidato la sua situazione economica grazie all’esproprio per pubblica utilità di un suo fondo agricolo. Dal punto di vista sentimentale era reduce da una complicata vicenda amorosa. Io avevo ventidue anni, un lavoro promettente e una vita ricca di interessi e relazioni nella swinging London degli anni ’60. Di certo scattò quella miscela di attrazione fisica e psichica che chiamiamo innamoramento, ma credo sia accaduto qualcosa di più profondo, che suscita ancora oggi la mia commozione. E’ stato come un “riconoscersi”. Credo appartenessimo entrambi a quella razza bisognosa di auguri, di cui Cattafi parla nella poesia autobiografica intitolata Cancro (L’aria secca del fuoco). Entrambi alla ricerca di autenticità, trasparenza, gratuità”.
Com’era in veste di padre e di marito?
“L’esperienza della paternità ha suscitato in lui sentimenti profondi e complessi. Alla gioia della mia inattesa gravidanza – Elisabetta è nata nel 1975, dopo otto anni di matrimonio – faceva da tragico contrappunto il pensiero dell’avvicinarsi della morte che Bartolo da tempo avvertiva in sé. Lo testimoniano le struggenti poesie dedicate alla piccola nella plaquette scheiwilleriana 18 Dediche, che hanno il sapore di un addio. Per quanto mi riguarda, vivere accanto a un personaggio come Bartolo è stato di certo impegnativo. Era esigente con se stesso e con gli altri. Ma io ero sinceramente innamorata e, con il trascorrere degli anni, sempre più consapevole della sua ricca personalità di uomo e di artista. Sono molti gli amici che possono testimoniare la sua calda umanità e la stabilità dei suoi affetti. Nel ménage quotidiano temperava con ironia la sua visione tragica della vita. La sua più vasta cultura ed esperienza non ci hanno impedito di vivere quella solidarietà e complicità alle quali ho accennato. Gli sono grata per il rispetto e la delicatezza con i quali ha accompagnato i tempi della mia crescita. E’ stato per me un maestro, oltre che un indimenticabile compagno”.
Partecipava alla stesura dei testi poetici di suo marito in qualità di suggeritrice, complice o Bartolo Cattafi scriveva in stato di solitudine inalterabile?
“Come il Paguro dell’omonima poesia de L’allodola ottobrina, Cattafi, protese le sue parti più porose / nella torbida broda circostante, assorbiva e metabolizzava sensazioni provenienti da una attenta, quasi maniacale osservazione della realtà. Scriveva dappertutto, in casa, per strada, sui mezzi pubblici, si alzava anche di notte per fissare i suoi pensieri. In questa fase ogni frammento del reale, ogni incontro, ogni lettura, ogni evento, poteva divenire fonte di ispirazione. La fase successiva, quella della elaborazione formale, avveniva in solitudine, nel suo studio. Io mi ero offerta di copiare a macchina i testi definitivi da lui manoscritti e, durante questa operazione, gli  chiedevo spiegazioni e approfondimenti o segnalavo qualche mia perplessità. Le copie dattiloscritte venivano infine sottoposte al giudizio degli amici Scheiwiller, Sereni e Forti. A cominciare da L’aria secca del fuoco, Raboni, che aveva conosciuto Bartolo in occasione dell’uscita de L’osso, l’anima, lo aiutò a strutturare le raccolte mondadoriane e ne redasse tutti i risvolti di copertina. Fu a lui che Cattafi affidò i testi di Segni e di Chiromanzia d’inverno, dei quali Raboni curò la pubblicazione postuma”.
Le descrizioni di campi, fiori e mondo agreste sono spesso presenti nell’opera di Cattafi. Qual era il rapporto del poeta con la natura?
Credo fosse un rapporto simbiotico, di compenetrazione. Ma lascio volentieri la parola all’amica Silvia Fleires, autrice di un illuminante saggio sull’argomento, intitolato Simbologia arborea e dendromorfismo nella poesia di Bartolo Cattafi. Dopo aver citato la poesia Ragioni de L’allodola ottobrina, la studiosa conclude scrivendo: «La circolarità biologica tra umano e vegetale non è chiusura al tempo e alla storia, rappresenta piuttosto, aliena da qualsiasi funzione consolatoria, un momento rigenerativo e preparatorio, che permette a Cattafi di affrontare lo schianto, il turbine del mondo.»”.
Lei ha scritto il libro La spiritualità di Bartolo Cattafi, può raccontarci il rapporto che lo stesso aveva con la fede, quali le letture più in sintonia col suo spirito?
“Non poteva essere che una lotta con l’angelo, un rapporto segnato dalla complessità e contraddittorietà della vita, che si è andato chiarendo nel tempo. Il Dio di Cattafi - senza dubbio il Dio trinitario cristiano -, ingenuamente esibito nella fase giovanile, verrà progressivamente minuscolizzato, riapparendo all’improvviso, talvolta in incognito, con un andamento carsico fino alle ultime poesie, quando rivendicherà il suo ruolo di interlocutore fondamentale del poeta. Le citazioni bibliche, tratte in prevalenza dai profeti e dai vangeli, sono ripresentate con un linguaggio originale, incarnato nel vissuto e nel contesto culturale dell’autore. Cattafi era molto devoto a Maria, alla quale ha dedicato alcune poesie in occasione di un pellegrinaggio a Lourdes, fatto per adempiere un voto. La poesia François, che si ispira - con la consueta punta di ironia- alla figura di un generale dei Brancardiers, mi pare emblematica delle fede che Cattafi ebbe il rammarico di non avere vissuto in modo più coerente e lineare: T’invidio Ossa Dure / celta dal duro occhio celeste / cadi di schianto in ginocchio / sul gradino più basso / (col tuo peso lo incrini) / vero spirito e vero corpo / greve e leggero davanti alla Signora / le braccia allargate / le palme verso l’alto / eri di quelli che salivano d’un balzo / gradini e montagne / che i Mori li facevano a pezzettini. (Poesie 1943-1979). Tra i testi presenti nella biblioteca del poeta vi sono diverse edizioni della Bibbia, i Vangeli apocrifi, il Corano, i detti di Buddha e di Confucio, poemi cosmogonici e teogonici di varie religioni e, tra gli altri, Agostino, Pascal, Kierkegaard, Bernanos, Eliot, Lisi, Betocchi, Rebora e Luzi”.



www.lestroverso.it n.3 / 2011

lunedì 20 giugno 2011

LA VOLTA POETICA DELL’UNIVERSO DI LUIGI CAROTENUTO Un testimone di un’epoca dubbia

LA VOLTA POETICA DELL’UNIVERSO DI LUIGI CAROTENUTO
Un testimone di un’epoca dubbia

Camaleontico, saldo, spontaneo, realista, beffardo, sognatore, provocatorio, fiducioso. È, al di là degli “steccati”, l’esteso richiamo poetico di Luigi Carotenuto, voce singolare per  sapienza introspettiva e letteraria. Un giovane autore, sebbene cosciente dell’altrui preferenze, “mi vorrebbero muto come un sasso”, diviene testimone di un’epoca dubbia. Versi arcobalenanti, come sfumature di un “lungoprato fiorito fiorente”, sbocciano, ora dal desiderio, “non si lasci espugnare la vita”, ora dal disincanto, “nel gioco delle parti si risolve la giornata”. Roghi intimisti, “m’infransi contro gli scogli / della terra e piansi”, rischiarano, riscaldano, uno sguardo, proteso sul “perenne protervo protetto carnevale”, derisorio, “insepolcrato il pensiero / i vivi celebrano i morti”, caustico, “avidi / poteste lucrare nell’aere / se solo aveste / l’immunità celeste”, speranzoso, “i bambini non scendono a patti col mondo / hanno tasche colme di rivoluzioni colorate”, prova tangibile dell’urgenza della poesia, balsamo sostanziale per  “anime senza posa”. Parole pedagoghe incedono, incidono l’animo come fossero sberle officinali desiderose di vivificare uomini-fantocci, “in vetrina”. Viandanti “senza lascito memoriale”, “accademici rivoluzionari / alchimisti del nulla / malinconici pre festino”, vite avulse allo stupore. Parole indocili addosso al becero perbenismo dell’apparenza, all’illusione di un cosmo finito “a portata di dito”. Parole di un amore nitido, incondizionato, per un “girotondo” infinito di bimbi ai quali dedica il proprio salvifico “Vi porto via”.  Un testo, edito da Prova d’Autore, prefato da Gaetano Vincenzo Vicari che sottolinea: “Persistenti e incisive immagini mentali costellano la volta poetica dell’universo del Carotenuto, che riesce a piegare la parola al suo fulgente pensiero, focalizzando i nodi esistenziali dell’uomo. Il poeta ha la forza mentale e il rigore intellettuale per adagiare, con una saggia padronanza dei mezzi linguistici, la parola poetica nello scrigno stagionato della conoscenza”.
GRAZIA CALANNA


(La Sicilia Cultura 19.06.2011)

Gocce di notti silenziose

Gocce di notti silenziose di Aurora Romeo



Intinge “la penna nel rosso del furore, dentro magma ribollente”. Nostalgica, come il presente che “trafigge la vaporea figura d’una vita trasparente”. Incandescente come fiamma “che arde e si consuma lenta”. Tenace, come “l’edera” che “vigorosa e trionfante” si abbarbica alle pareti dell’intenzionale isolamento, in prospera solitudine. Una “voce senza eco” che si tramuta in “divina favilla, Poesia, sete d’immenso”. Un richiamo in “soffi” d’essenza “ridestata”,  quello di Aurora Romeo, giovane autrice di “Gocce di notti silenziose”, silloge edita da “Prova d’Autore”. La poetessa interroga la notte affinché con “voce bianca” e risonante possa svelare segreti beffardi, propri di un “passato immutabile”, custoditi dal vento. Reminiscenze dalle “pallide gote”, basta sfiorarle affinché  l’atmosfera si addolcisca. Il crepuscolo inoltrato, pacatamente, diviene “rifugio di intimi rapimenti”, irrinunciabile “culla stellata di pace e di umani sogni”. Versi coesi che narrano di un mondo sovrastato da una “coperta di cielo” che “col suo bacio freddo” cinge senza mai scaldare. Di un campo che ha rigettato l’inerme aratro, “sconfitto, piegato dalla colpa di un libero arbitrio infame”. Di un grido raccolto, “lo spezzan le pietre”. Di un canto “muto”, intento a ricamare nel vuoto  “vane corolle… petali amari dal polline mendace”.
GRAZIA CALANNA



giovedì 16 giugno 2011

M'ama non m'ama

M'ama non m'ama
Quale stupido modo di sciupare un fiore
 m'ama non m'ama per decidere il tuo amore
 e intanto ho raso al suolo la vegetazione
 cercando un petalo che approvasse
 questo maledetto amore.
                                                    (ANTEPRIMA da Vi porto via, edizioni Prova d'Autore giugno 2011)
 

lunedì 13 giugno 2011

Vi porto via di Luigi Carotenuto

Vi porto via di Luigi Carotenuto

Scheda Libro
Vi Porto via di Luigi Carotenuto
Edizioni Prova d’Autore
pp. 104
prefazione di Gaetano V. Vicari
Genere: poesia
Anno: 2011 (giugno)

Dalla prefazione a cura del prof. Gaetano Vincenzo Vicari
La poesia di Luigi Carotenuto è pervasa dalla malinconia e dal dolore che proviene dagli spazi più belli e, nello stesso tempo, più tristi dell’anima. Una consapevole scelta lessicale del campo poetico, una lucida compatibilità collocazionale dei lemmi, una rigorosa occorrenza posizionale dei termini impreziosiscono l’impalcatura versificativa dell’ampio edificio del ricordo. Persistenti e incisive immagini mentali costellano la volta poetica dell’universo  del Carotenuto, che riesce a piegare la parola al suo fulgente pensiero, focalizzando i nodi esistenziali dell’uomo, placcati di gioie e di effimere speranze. Il poeta ha la forza mentale e il rigore intellettuale per adagiare, con una saggia padronanza dei mezzi linguistici, la parola poetica nello scrigno stagionato della conoscenza. (…)
Un modello di sensibilità poetica (…). La sua poesia è uno studio dell’esistenza dell’uomo, un viaggio nei comportamenti vitali. Il poeta nella pienezza conoscitiva rileva che Qualcosa mancava per stare bene.

Dormire ho dormito / mangiare ho mangiato / lavorare ho lavorato / Vivere?/ l’ho dimenticato //  (Qualcosa mancava)

Riferimenti baudelairiani (Alla passante di Baudelaire), chiasmi (La gravità del peso o il peso della gravità), metafore e altre figure retoriche ancora puntellano l’impalcatura poetica del Carotenuto, che affetta con sagacia la realtà liricizzata… .

Biografia dell’autore
Luigi Carotenuto, nato a Giarre, dove vive, nel 1981. Lavora nell’ambito socio-pedagogico. Collabora con il periodico culturale l’EstroVerso (www.lestroverso.it) e con la rivista CriticaMente - Filosofia e Teoria delle Scienze Umane - a cura di Federico Sollazzo. Ha vinto la V edizione del concorso letterario Alimena sotto le stelle della letteratura, con la poesia Uscita senza acquisti. Nel novembre 2008 ha pubblicato l’opera prima L’amico di famiglia (ed. Prova d’Autore). Ha partecipato, in qualità di protagonista, al cortometraggio Kosme (2010) scritto e diretto da Vladimir Di Prima. Dopo L’amico di famiglia (ed. Prova d’Autore), Vi porto via è la sua seconda raccolta di liriche. luigicarotenuto@live.it


mercoledì 1 giugno 2011

Grazia Calanna L'Azzurro del Bene

Grazia Calanna L'Azzurro del Bene

Per ogni nuovo poeta che scopriamo si accende una luce che prima non c’era. Diciamo una luce per dire che qualcosa di magico si aggiunge alla capacità di capire probabili frammenti della vita e del suo mistero. Perché mistero è la vita e non solo per la imprevedibilità che in essa si annida, quanto per gli stimoli che ogni presenza di vita provoca intorno a sé, stimoli per reazioni che si manifestano per innestarne altre, e all’infinito. Grazia Calanna ha esordito da poeta dando alla silloge un titolo allusivo verso due miti della vita umana, il tempo e il silenzio.
(Crono silente – pagg. 80 - € 10,00 – Prova d’autore). È importante leggere quanto ha scritto nella sua impetuosa prefazione Savina Dolores Massa, una rapida sintesi che tanto contiene e più dimostra. Onestà di lettore vuole che si riconosca nella centrata definitorietà dell’intervento della prefatrice il grumo centrale di quanto Grazia Calanna ha distillato, con disinibita franchezza, quasi a proporre un canto ossimoro rispetto alla promessa (pur pienamente onorata) del titolo. Il fatto è – potrebbe essere avanzato – che il silenzio caratterizza chi ha riserve di cose da dire sulla umana condizione, e per dirle non ricorre al filtro dell’ambiguità ma al machete-maglio della propria verità, quasi a farne omaggio a quella inconfutabile regola che identifica la letteratura nella vita e non certo per la contingenza di ripararsi sotto un libro-manifesto del secondo decennio del secolo scorso: “Letteratura come vita” di Carlo Bo (1929). E dire che, quella volta, si era già appena alla soglia della stagione ermetica. Una stagione che fu amata dalla poesia e che resiste nella sua formula di calcolate reticenze, forse in omaggio a una delle pretese della lirica che privilegia i luoghi dell’inespresso, che rifugge i momenti del didascalico e del parenetico, per esorcizzare il pericolo del moralismo. Eppure proprio questa ultima considerazione potrebbe celare un limite assurdo al momento di poter essere adattata alla poesia. Perché la poesia è anzitutto la ricerca e l’affermazione del vero. Forse perché il vero è la parte nobile e destinata a sopravvivere, forse perché la verità è amata e cercata da tutti (come la poesia, appunto) anche se, ironia della sua sorte, la verità offende. Proprio così. Ma Grazia Calanna non propone offesa alcuna quando ci ricorda con i versi iniziali di “Briciole”, che “C’è chi concede briciole / avaro / C’è chi si sbriciola / altruista / C’è chi finirà in briciole / avido / C’è chi di briciole risorgerà /azzurro”. Il colore azzurro è qui significativo e può invitare a curiosare nella tavolozza dei colori che si succedono in “Crono silente” spesso accompagnati da riferimenti termici che complementano di allusività palesi le proposte della poetessa. Infatti i colori in Crono silente sono tanti, e il loro non è un ricorrere né un ricorrersi, se ne coglierà pieno il significato valutandone il pendant con le temperature, che tendono ai valori alti. Lasciamo ai lettori il piacere di scoprire la scala delle temperature, in Crono silente e segnaliamo quella dei solfori. Ed ecco come, tra grigi pag.19 e 42; pece, pag. 20 e nera pag.45, si giunge al plumbeo (pagg. 38 e 49) e dall’ebano i pag. 27 al cinerino della successiva al bianco della 29. In controtendenza con il vermiglio di pag. 18 che si coniuga al porpora (pag.37) e ancora allo scarlatto (pag. 56), isolando il rubino di pag. 40. L’azzurro e il celeste (pag. 44 e pag.56) negano il bianco e relegano il “buio” nel suo ricorrere tra le pagg. 22, 34, 37…. Lasciamo fuori, anche stavolta al piacere dei lettori, le centrate figuralità simboliche ma solo altro tra i segni rivelatori, che confermano la lealtà della scrittura creativa di Grazia Calanna, forte di tensione interiore autentica quanto “silente”, proprio in arrendevole intelligenza con le esigenze inesorabili del Tempo-Crono. Non resterebbe che il tentativo di entrare nel merito della forma. Banco di collaudo per la letteratura in genere, per la poesia in particolare. Ed è su questo fronte che si è chiamati alla responsabilità di definire quanto possa essere destinato a separare i momenti della cronaca da quelli della letteratura come vita. Un momento che si affida all’evidenza proprio nel caso di questo esordio di Grazia Calanna, che ha scelto di raccontare i momenti dell’inesprimibile subliminale ricorrendo alla formula di un diario in pubblico, tra le cui pagine non si svolge il canto di quanto raccolto o ripudiato, visto o ascoltato, ma il fedele diagramma di un’anima che reagisce, il tracciato di un percorso di sensibilità offesa, che ha disegnato i confini oltre i quali c’è l’azzurro del bene, più come ipotesi e speranza che come tesi ed esperienza. Un mondo nel quale non c’è molto da scegliere oltre “Conforme conformante conformismo / Catene impermeabili / schivano  il temporale perenne di un tempo / asservito all’antropica silente stoltezza”. Ecco l’imporsi della propria verità a dar nome e immagine all’inesprimibile, che tale finirebbe di essere se tautologicamente si ponesse fine, per sempre, all’ipocrisia e al pecorume del “come l’una fa le altre fanno”. Infinite sono le vie per dire il vero, Grazia Calanna ha scelto quella più semplice, quella di un tipo di spontaneità che fu tanto cara a Umberto Saba, il poeta che ci ha lasciato per insegnamento che “La notte vede più del giorno”, una lezione che Calanna porta in sé con  fiera consapevolezza e umile approccio, anche per non urtare più di quel tanto il “conforme conformante conformismo”, nel quale chi più chi meno, tutti continuiamo a vivere immersi, anche nei momenti in cui ci ergiamo a giudici degli altri, trascurando di giudicare, anzitutto. noi stessi.


(Mario Grasso)
http://www.lunarionuovo.it/?q=node/407  - Lunarionuovo - n. 43/53 nuova serie - Giugno 2011 -